La libertà di espressione

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La libertà di espressione

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

Carta dei diritti

Articolo 11 – Libertà di espressione e d’informazione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

1. L’articolo 11 corrisponde all’articolo 10 della CEDU, che recita:
`1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.

Oggi «La libertà di espressione minacciata dalla censura: è giunta l’ora di ribellarsi»

Nell’ora più grave per la libertà di espressione, minacciata come mai prima nella storia da un potere di dimensioni globali e dotato di una tecnologia che consente un controllo quasi totale sulle persone, in difesa di questo diritto umano fondamentale parte un appello universale di cui La Verità è in grado di dar conto e pubblicare il testo italiano in anteprima.

Si tratta della Westminster Declaration, che sarà annunciata oggi in tutto il mondo e che, davanti alla deriva liberticida in atto, chiama all’azione le autorità, le piattaforme digitali e tutti i cittadini che vogliano preservare la democrazia, lo spirito della differenza e il confronto franco e aperto contro le forze della censura e dell’intolleranza, nella convinzione che l’attacco alla libertà di espressione sia sintomo di una crisi dell’umanità stessa, il cui progresso sociale è storicamente dipeso anche dalla libera manifestazione del pensiero.

Nato su iniziativa di un gruppo di lavoro internazionale riunitosi lo scorso giugno nel quartiere londinese di Westminster sotto la guida di Michael Shellenberger Matt Taibbi (i giornalisti che con i «Twitter Files» hanno svelato la pressione esercitata dalle agenzie governative sul social media ante Musk per limitare la libertà di espressione e manipolare le notizie sulle tematiche di attualità) l’appello pubblico annovera tra i firmatari personalità illustri del mondo della cultura, della scienza, del giornalismo, dell’economia, dell’università, del cinema: un parterre de roi trasversale che va dal celebre biologo evoluzionista Richard Dawkins, ai noti psicologi e saggisti Jordan Peterson (recentemente intervistato da La Verità), Steven Pinker Jonathan Haidt; dagli economisti Jeffrey Sachs Yanis Varoufakis, allo storico Niall Ferguson; dagli scienziati e accademici Robert Malone, Jay Battacharya, Sunetra Gupta e Martin Kulldorf al regista Oliver Stone e agli attori Tim Robbins John Cleese; dall’ex analista della Cia Edward Snowden al giornalista Julian Assange, allo scrittore Peter Hitchens. Tra i nomi italiani figurano Marcello Foa, Michele Santoro, Luca Ricolfi, Carlo Lottieri, Andrea Zhok, Alessandro Di Battista, Carlo Freccero, Giorgio Bianchi, Alberto Contri Paola Mastrocola, oltre ai due giornalisti co-autori della dichiarazione Thomas Fazi e la sottoscritta.

La Westminster Declaration esordisce denunciando «la censura crescente che minaccia di erodere norme democratiche secolari» in molti Paesi, ricorrendo al pretesto della lotta a disinformazione, mala-informazione e linguaggio d’odio per eliminare il libero discorso, le voci dissenzienti e qualsiasi contenuto sfidi l’ortodossia ufficiale. Questa ingerenza, che «sopprime discussioni su questioni di interesse pubblico e mina i principi fondamentali della democrazia rappresentativa», viene attuata da un «complesso censorio-industriale» composto da enti, piattaforme online, realtà accademiche e ong, il quale «agisce spesso su diretta pressione delle autorità governative».

Sono parole che fanno pensare a un recente episodio che conferma l’utilizzo a fini censori della nuova legge sui servizi digitali dell’Unione europea, il Digital Services Act (DSA): il monito-minaccia lanciato dal commissario UE Thierry Breton, che con un tweet ha accusato la piattaforma X-Twitter di aver disseminato contenuti illegali e fatto disinformazione sul conflitto in Medio Oriente e ha intimato al suo proprietario, Elon Musk, di rispettare con urgenza le regole del DSA in materia di «moderazione dei contenuti». Al successivo botta e risposta tra i due sul social è seguita l’apertura di un’inchiesta da parte di Bruxelles per verificare la presunta diffusione, sulla piattaforma, di disinformazione e «contenuti terroristici, violenti e di incitamento all’odio», nonché la richiesta di ottemperare a determinati obblighi sull’attivazione del protocollo di sicurezza e sulla lotta alla fake news, pena multe salatissime e perfino il rischio di non poter più operare in Europa. L’antipasto di questo modus operandi si era peraltro visto già nel luglio scorso, nei giorni dei disordini in Francia dopo l’omicidio di un giovane da parte di un poliziotto: sempre Breton, parlando a France Info, aveva puntato il dito contro i social per i contenuti veicolati incitanti all’odio e alla rivolta e, appellandosi alla legge europea che stava per entrare in vigore mettendoli sotto sorveglianza, aveva annunciato di aver imposto loro l’assunzione di personale adibito a specifici controlli in materia.

D’altronde, come ricorda la Westminster Declaration, il DSA prevede di affidare a «ricercatori verificati» da ONG e università il monitoraggio dei contenuti, rimettendo il diritto di free speech «alla discrezione di entità non elette e non tenute a rendere conto del proprio operato».

Nell’appello si segnala che oltre alle operazioni di oscuramento e selezione manipolativa sui social – attuate con l’ausilio dei «fact-checkers» dei media tradizionali «che hanno abbandonato i valori giornalistici del dibattito e dell’indagine intellettuale» – in tutto il mondo si assiste a interventi legislativi volti a criminalizzare il libero discorso politico e a rimuovere opinioni sgradite. L’ultima frontiera da abbattere sarà infrangere la crittografia «end to end» usata da certe app di messaggistica: a quel punto, avverte il documento, «non ci resterà alcuna possibilità di effettuare conversazioni autenticamente private nella sfera digitale.»

Si delinea dunque un piano preoccupante che riduce il diritto di espressione a concessione e viene portato avanti ammantandolo di buoni propositi, che vanno dalla lotta alle fake news, alla «protezione delle democrazie» (Breton dixit), alla tutela dei più deboli e fragili da disinformazione e manipolazione. Una finta facciata etica che la Westminster Declaration demolisce e rovescia, ribadendo il fatto che le parole – pur se dolorose o offensive – non possano mai rappresentare motivo di censura, e che il discorso libero sia il pilastro di una società libera e sia essenziale per responsabilizzare i governi, sostenere le fasce più vulnerabili, ridurre il rischio di evoluzioni tiranniche. «Le misure a tutela della libertà d’espressione – si legge nella dichiarazione – non valgono solo per le opinioni con cui siamo d’accordo; dobbiamo strenuamente tutelare anche le opinioni con cui siamo fortemente in disaccordo.» «Non vogliamo», continuano i promotori, «che i nostri figli crescano in un mondo dove vivono nella paura di esprimere la propria opinione. Vogliamo che crescano in un mondo dove le loro idee possano essere espresse, esplorate e dibattute apertamente – un mondo che i fondatori delle nostre democrazie avevano immaginato quando hanno sancito la libertà di parola nelle nostre leggi e costituzioni.»

Richiamandosi alla protezione che la Costituzione degli Stati Uniti fin dal primo emendamento riconosce alla libertà di parola, di stampa e di coscienza e a quella garantita dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che afferma il diritto di ogni individuo «alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere» (art. 19), la Westminster Declaration rivolge un triplice appello «per il benessere e la prosperità dell’umanità»: ai governi e alle organizzazioni internazionali affinché sostengano l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani; alle piattaforme digitali affinché, in base al medesimo articolo, proteggano la piazza pubblica digitale e si astengano dalla censura politicamente motivata; ai cittadini affinché rifiutino il clima di intolleranza che incoraggia l’autocensura e si uniscano in questa lotta per i diritti democratici.

«Noi difendiamo il tuo diritto di porre domande. Le discussioni accese, anche quelle che possono causare fastidio e sofferenza, sono molto meglio dell’assenza di discussione», chiosano gli autori.

In gioco – argomentano – non c’è solo la ricchezza della vita stessa, di cui la libertà di espressione è il fondamento, ma una serie di principi di cui essa è corollario: il diritto all’informazione, giacché «in una democrazia nessuno ha il monopolio su ciò che è considerato vero»; la «rappresentanza dal basso verso l’alto» che viene ribaltata dalla censura fatta in nome della «salvaguardia della democrazia»; la difesa della nostra facoltà di autodeterminarci, dato che nel corso della storia gli attacchi alla libertà di parola hanno anticipato quelli a tutte le altre libertà e visto che «i regimi che hanno eroso la libertà di manifestazione del pensiero hanno sempre indebolito e danneggiato altre strutture democratiche fondamentali».

Precisamente quello che fanno, oggi, le élite che spingono per la censura.

FONTE: https://www.laverita.info/

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